Sia la giurisprudenza che la dottrina italiana hanno avviato un processo interpretativo sin dall’introduzione della definizione di cui all’art. 270-sexies c.p., focalizzando gli sforzi nella definizione della sua portata e della sua applicabilità, specialmente in relazione alle disposizioni normative simili. La disposizione menzionata si presenta con una struttura articolata, basata sul richiamo di elementi oggettivi, volti a garantire un’applicazione il più possibile priva di discrezionalità, e di elementi soggettivi più flessibili. La norma sottolinea l’importanza dell’elemento oggettivo delle condotte, basato su una valutazione retrospettiva derivante dall’analisi della loro natura o del contesto in cui si verificano, nel causare un grave danno a un paese o a un’organizzazione internazionale. Se da un lato il legislatore ha ampliato il campo delle condotte rilevanti attraverso il riferimento al “contesto”, dall’altro ha reso la norma poco precisa nella parte in cui si fa riferimento alla possibilità di “grave danno”. Tuttavia, la precisione della norma potrebbe essere recuperata attraverso un’analisi caso per caso delle specifiche circostanze e della capacità delle condotte di arrecare danni, considerando la previsione e la volontà del contesto di riferimento, in linea con il principio di offensività necessaria richiesta in concreto per le situazioni costruite su un evento di pericolo. In questo contesto, il giudizio retrospettivo richiede la combinazione delle condotte con il contesto in cui si manifestano, purché considerato dall’agente. Pertanto, si può parlare di “grave danno”, come ha chiarito la giurisprudenza, anche quando una singola condotta non mostra tale pericolosità da sola, ma lo dimostra in correlazione con altri eventi nella serie causale che porta all’evento dannoso. Tuttavia, si è notata una tendenza nella giurisprudenza a separare la definizione fornita dal codice dalla sua base nel contesto euro-unitario, estendendola a situazioni di gravi danni economici che non necessariamente comportano conseguenze negative per la collettività. Questo distacco dal riferimento alla lesione o al pericolo dei beni giuridici primari (come la vita e l’integrità fisica), prioritariamente considerati dalla decisione quadro del 2002, successivamente ripresa dalla del 2017, e dalla Convenzione ONU del 1999 già menzionata, crea il rischio di creare una figura giuridica ambigua, utile per qualunque tipo di comportamento violento capace di causare un grave danno materiale a qualsiasi bene giuridico, ma senza tener conto delle conseguenze che tale danno dovrebbe comportare. Il legislatore amplia il requisito oggettivo del “grave danno” aggiungendo anche un requisito soggettivo relativo alla finalità della stessa condotta, individuando tre obiettivi distinti: l’intimidazione della popolazione, la coercizione dei pubblici poteri o delle organizzazioni internazionali a compiere o astenersi da determinati atti, e la destabilizzazione o distruzione delle strutture politiche, costituzionali, economiche e sociali di un Paese. Il richiamo a queste tre “sottofinalità”, che costituiscono un triplice dolo specifico alternativo, serve a estendere la portata della finalità terroristica a una varietà di obiettivi della violenza terroristica, in conformità con le molteplici manifestazioni della stessa nella prassi più recente, senza necessariamente identificare vittime specifiche. Se è accettabile l’idea che la finalità terroristica sembri meglio correlata al primo dei tre scopi specifici indicati (cioè “intimidire la popolazione”), anche alla luce della consolidata giurisprudenza e dottrina, il raggruppamento di tali fini sotto un’unica categoria solleva alcune questioni: ad esempio, la terza finalità di destabilizzazione o distruzione delle strutture di un Paese sembra particolarmente incline a configurarsi come un’azione sovversiva, causando difficoltà sistematiche e di coordinamento con altre disposizioni del codice che distinguono la finalità terroristica dalla prima. Con l’entrata in vigore dell’articolo 270-sexies del codice penale, si è giunti a distinguere la finalità terroristica “pura” da quelle eversive e sovversive solo per quanto riguarda gli obiettivi alternativi di una stessa matrice (ovvero quella terroristica), poiché il legislatore ha scelto sostanzialmente di sovrapporre tali finalità attraverso l’utilizzo della locuzione “destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale”. A questi scopi si aggiunge anche quello di costringere al compimento o all’astensione da un atto da parte dei pubblici poteri, strutturalmente correlato sia con la prima delle tre finalità (come accennato, presupposta in modo costante), sia con l’elemento oggettivo del grave danno. La giurisprudenza ha infatti argomentato che l’intenzione di provocare un grave danno a un paese non è sufficiente se non è accompagnata dalla reale possibilità che tale effetto si verifichi e che sia in grado di influenzare le decisioni statali. Rimane quindi invariato il fatto che l’obiettivo specifico di intimidire la popolazione rimane un carattere strutturale fondamentale dell’obiettivo terroristico, ma non rappresenta l’unico, poiché può essere accompagnato dalle altre due finalità eversive e coercitive dei pubblici poteri previste dalla definizione del codice. Questa scelta del legislatore sembra chiaramente orientata a fornire una definizione “aperta”, adatta a essere applicata in diversi contesti e modellata attraverso la valutazione del giudice nel caso concreto.
Guttae Legis
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