(Adnkronos) – "Nella grande famiglia dei linfomi, uno dei più frequenti è il linfoma a grandi cellule B, una malattia maligna che, se non curata appropriatamente, conduce invariabilmente al decesso. E' una patologia discretamente frequente, anche se è una malattia rara". Così Roberto Cairoli, direttore della Struttura complessa di Ematologia dell'Asst Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano, in occasione della presentazione della campagna di informazione diretta al grande pubblico sul linfoma a grandi cellule B (Dlbcl), il più frequente della famiglia dei linfomi non Hodgkin, firmata da Sobi, azienda farmaceutica svedese dedicata alle malattie rare, con il patrocinio delle associazioni La lampada di Aladino Ets e Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma (Ail). "Il linfoma a grandi cellule B – spiega Cairoli – colpisce i linfonodi che, come prima cosa, si ingrossano senza che ci sia una particolare patologia infettiva che possa giustificare questo ingrossamento. In genere i linfonodi non sono dolenti e questa tumefazione progredisce abbastanza rapidamente. Una ghiandola ingrossata che non fa male, non è arrossata e progredisce rapidamente dovrebbe essere presa come un segnale di allerta molto importante e il cittadino dovrebbe rivolgersi al medico di base e, soprattutto, all'ematologo. Si può ingrossare anche la milza – aggiunge lo specialista – e quando la milza è molto grossa deborda dall'arcata costale, diventa palpabile e può spingere lo stomaco verso l'alto, dando segni di pienezza gastrica e tensione addominale. Un'altra manifestazione della malattia è la compressione dei vasi venosi comprimibili, che provoca edema perché il sangue non riesce a defluire. Ci può poi essere la febbre, in genere non continua e che si presenta soprattutto la sera, oppure una sudorazione profusa o, ancora, un calo ponderale significativo non dovuto ad una dieta". Dal punto di vista delle terapie, "la cura che viene prescritta come prima cosa – illustra l'ematologo di Niguarda – associa una chemioterapia tradizionale ad un anticorpo monoclonale. E' una cura molto efficace, che guarisce circa il 60% dei pazienti. L'ambizione però è quella di curare anche il restante 40% per il quale, fino a non molti anni fa, avevamo a disposizione un'ulteriore chemioterapia associata a quello che viene comunemente detto trapianto autologo delle cellule staminali. Questo scenario sta rapidamente cambiando. Esistono infatti già delle strategie terapeutiche che hanno quasi del tutto sostituito l'ulteriore chemioterapia e il trapianto". Il riferimento è agli "anticorpi Car-T, già disponibili in Italia – ricorda Cairoli – Questi anticorpi possono veicolare il chemioterapico oppure reclutare le cellule del sistema immunologico. Gli anticorpi che veicolano il chemioterapico non fanno nient'altro che riconoscere il bersaglio cellulare del linfoma malato e portare la chemioterapia all'interno della cellula malata, con un meccanismo che possiamo considerare di medicina di precisione. Sono opzioni terapeutiche che colmano quel vuoto nei pazienti con recidiva oppure nei pazienti primariamente refrattari, ovvero quelli che non rispondono primariamente alle cure. Credo – conclude lo specialista – che sia una buona notizia dire che i pazienti italiani ne possono già usufruire. Speriamo quindi che anche quella piccola fetta di pazienti che non guariva adesso possa avere delle maggiori opportunità di guarigione". —salutewebinfo@adnkronos.com (Web Info)
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