Disturbare una funzione religiosa è un atto che può ledere la libertà di culto e recare offesa ai sentimenti religiosi di chi vi partecipa. In Italia, questo comportamento è punito dalla legge con il reato di “ turbamento di funzioni religiose” ( art. 405 c.p.). L’articolo in esame punisce chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose. Il reato può manifestarsi in diverse forme: l’impedimento si verifica quando si ostacola l’inizio o lo svolgimento della funzione religiosa, fino a determinarne la sospensione o l’interruzione; la turbativa si verifica quando il normale svolgimento della funzione religiosa viene compromesso da un comportamento fastidioso o offensivo. L’art. 403 c.p. “ Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone” disciplina quanto segue: “ Chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da euro 1000 a euro 5000. Si applica la multa da euro 2000 a euro 6000 a chi offende la religione dello Stato, una confessione religiosa, mediante vilipendio di un ministro di culto”.
L’analisi dei due articoli sopramenzionati risulta essere prodromica per comprendere ciò che ha portato la Cassazione a condannare il soggetto protagonista della vicenda qui di seguito esposta. La Cassazione con sentenza n. 1253/2024 ha confermato la condanna per turbamento della funzione religiosa e vilipendio a carico del cittadino che aveva inveito durante la processione impedendone così la prosecuzione.
I fatti contestati all’imputato, consistevano nell’aver inveito durante lo svolgimento di una processione dinanzi al palazzo comunale, contro il Vescovo, gesticolando con fare molto aggressivo ed unendosi ad un coro che recitava “ via, vai via” impedendo la prosecuzione della processione stessa.
La Corte d’appello d Salerno aveva quindi ritenuto l’imputato colpevole per aver turbato la celebrazione religiosa, con piena coscienza e volontà.
Tale decisione è il risultato dell’adesione ad un orientamento giurisprudenziale ormai granitico sul punto: “ il reato di cui all’art. 405 c.p. può essere perfezionato da due condotte antigiuridiche: l’impedimento della funzione, consiste nell’ostacolare l’inizio o l’esercizio della stessa fino a determinarne la cessazione, oppure la turbativa della funzione, che si verifica quanto il suo svolgimento non avviene in modo regolare. La fattispecie è sostenuta dal dolo generico, tanto che la medesima condotta di “ turbamento” della funzione religiosa può essere integrata anche dalla sua strumentalizzazione per scopi contrari al sentimento religioso di chi vi prende parte e che la funzione stessa intende evocare e onorare”. A seguito di tale sentenza che vedeva l’imputato colpevole di vilipendio alla religione e turbamento della funzione religiosa, il difensore insieme all’imputato hanno proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
La Suprema Corte, ha rigettato il ricorso presentato dall’imputato con riferimento all’integrazione delle fattispecie di cui agli artt. 403 e 405 c.p., ponendo particolare attenzione all’analisi del reato di vilipendio alla religione.
Il ricorrente, ha contestato l’elemento soggettivo richiesto per il vilipendio alla religione, individuato dallo stesso nel dolo specifico.
La Corte ha sottolineato che, affinché sussista il reato di vilipendio alla religione, è necessario che la condotta offensiva abbia un carattere volgare e grossolano, manifestando dileggio, derisione e disprezzo nei confronti della confessione religiosa e del ministro di culto. Inoltre, l’agente deve agire con la consapevolezza che il suo comportamento è idoneo a vilipendere e non deve essere influenzato da un particolare movente politico o sociale che potrebbe escludere la colpevolezza. In tal modo, è confermato che il dolo generico è sufficiente per configurare il reato di vilipendio alla religione, senza la necessità di un dolo specifico. In merito a ciò, il Giudice ha analizzato l’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia, evidenziando che è legittima la critica religiosa quando espressa in modo motivato e consapevole, derivante da una indagine condotta con serenità di metodo da parte di una persona adeguatamente preparata. D’altra parte, la critica diventa vilipendio quando manifesta un atteggiamento di disprezzo verso la religione, negando il valore e il rispetto dovuti all’istituzione e alle sue componenti essenziali. Alla luce di tali principi, il Giudice di legittimità ha concluso che la condotta offensiva dell’imputato nei confronti dei Vescovo non costituiva una critica ragionata e civile al profilo organizzativo di un evento pubblico, ma piuttosto un’offesa la sentimento religioso della comunità dei fedeli presenti, contestando l’autorevolezza attribuita alla figura del vescovo nelle sue funzioni.
Il tribunale ha quindi confermato che la critica religiosa è legittima quando espressa in modo rispettoso e motivato, mentre il vilipendio si manifesta quando manca il rispetto per i valori e le credenze religiose della comunità.
Per le ragioni sopra espresse, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dall’imputato.
Guttae Legis
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