La libertà di manifestazione del pensiero e manifestazioni di opinioni razziste e xenofobia in Italia

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Il diritto di manifestazione del pensiero trova un labile e sottile confine nella materia dei delitti di propaganda e istigazione razziale. E’ proprio, infatti, nel tentativo di effettuare un bilanciamento tra i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 21 Cost. che il Legislatore del 1975 è giunto al discutibile risultato della formulazione di cui all’art. 3 lett. a) e b) L. 16 ottobre 1975 n. 6541 . La necessità da parte del legislatore di intervenire in tale normativa si fonda sull’esigenza di regolare un campo che sempre più nell’era moderna ha assunto rilievo di fronte all’incessante integrazione tra popoli e il conseguente scontro tra culture da essa derivante. Al contempo, tuttavia, deve rilevarsi che la norma introdotta anche come riformulata dalla novella del 2006 presenta molteplici spunti critici, con riferimento soprattutto, alla scarsa tassatività e al deficit di offesa . Corollario naturale per tutte quelle ipotesi delittuose caratterizzate da tali problematiche, con riferimento in particolare all’indeterminatezza degli elementi normativi della fattispecie, è la crescente discrezionalità che ne deriva per la giurisprudenza, che si trova a valutare liberamente l’integrazione dell’ipotesi delittuosa e porre rimedio ai vuoti normativi. Ripercorrendo l’iter normativo e giurisprudenziale in materia, il primo intervento del legislatore italiano teso a stigmatizzare in sede penale la discriminazione razziale è stato la legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba). Questa è la legge di attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, ed ha, come obiettivo principale il divieto di riorganizzazione del partito fascista. La propaganda razzista veniva considerata, dall’art. 1 della citata legge, come una delle modalità di perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, la cui ricostituzione veniva punita con la pena della reclusione da tre a dieci anni. Il fenomeno razzista veniva, quindi, sanzionato incidentalmente ed indirettamente, ma la legge Scelba resta comunque il primo atto normativo con cui il legislatore italiano riconosceva il disvalore penale di condotte basate sulla discriminazione razziale.25 Tuttavia con la legge 645 sono state, a più riprese, sollevate questioni di legittimità costituzionale, poiché si è sostenuto che la norma di fatto negherebbe a una categoria ideologica, i diritti dichiaratamente garantiti dalla Costituzione in termini di libertà associativa e di libertà di manifestazione del pensiero.  Fu perciò nel 1956, in occasione di quasi simultanei procedimenti per apologia del fascismo (presso il Tribunale di Torino, la Corte d’appello di Roma e la Corte d’Appello di Perugia), che fu adita la Corte Costituzionale, la quale si espresse nella nota sentenza del 16 gennaio 1957. La difesa dell’imputato di Torino aveva impugnato il citato art. 4 della legge per asserito contrasto con l’art. 21 primo comma della Costituzione, e il Tribunale di Torino vi aveva sua sponte aggiunto un rilievo di non manifesta infondatezza della pretesa incostituzionalità dell’intera legge n. 645 del 1952 e non anche del solo art. 4. La Corte costituzionale, accogliendo il rilievo dell’Avvocatura dello Stato, riassunse che l’eccezione era stata proposta sia per l’intera legge, sia per l’articolo 1 (ricostituzione), sia ancora per l’articolo 4 (apologia), ma nessuno degli imputati, intanto, era in giudizio per il reato di cui all’art. 1 e questa questione fu accantonata. Circa l’intera legge, della quale si richiedeva verifica alla luce dell’art. 138 Cost., onde stabilire cioè se essa costituisse revisione costituzionale (e avesse così infranto la procedura prescritta per le revisioni costituzionali), la Corte stabilì che la legge 645 non aveva rango di legge costituzionale e che quindi non comportava revisione, né contrasto con la norma dedotta, essendo invece mera applicazione della XII disposizione. Circa l’art. 4, la Corte si soffermò invece a meglio definire la fattispecie delittuosa, segnalando che il reato si configura allorquando l’apologia non consista in una mera “difesa elogiativa”, bensì in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista, cioè in una istigazione indiretta a commettere un fatto rivolto alla detta riorganizzazione e a tal fine idoneo ed efficiente. Ritenne, perciò, la Corte di non ravvisare alcuna violazione delle disposizioni contenute nell’art. 21 della Costituzione, sebbene la motivazione andasse dedotta dall’accento posto sul carattere di istigazione dell’apologia e di fatto, come in seguito fu criticamente osservato, si limitò a “glissare” sulla questione di fondo. La sentenza fu poi citata da una successiva sentenza della stessa Consulta (6 dicembre 1958, n.74), relativa stavolta all’art.5 della legge 645/52 a proposito della definizione di “manifestazione fascista”, che si occupò di esplicitare in motivazione la ratio della norma, politica e difensiva del giovane regime democratico repubblicano contro i possibili attentati alla sua integrità. Successivamente alla legge Scelba, un intervento del legislatore italiano diretto espressamente a colpire con la sanzione penale gli atti di razzismo e xenofobia si è avuto nel 1975, con la c.d. Legge Reale, di ratifica ed attuazione della Convenzione di New York del 1965 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. L’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico autonome fattispecie di reato caratterizzate dalla matrice razzista: la propaganda razzista, l’incitamento alla discriminazione razziale e agli atti di violenza nei confronti di persone appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale, il compimento di atti di violenza nei confronti dei medesimi soggetti e, infine, la costituzione di associazioni ed organizzazioni con scopo di incitamento all’odio o alla discriminazione razziale. Il riferimento è soprattutto alla lettera a) dell’art. 3, comma I, della citata legge, il quale puniva con la reclusione da uno a quattro anni “chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale”, ovvero (lett. b) “chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo nazionale, etnico o razziale”. Erano poi puniti dallo stesso articolo (al comma 2) con la reclusione da uno a cinque anni i partecipanti (o coloro che prestino assistenza) ad associazioni od organizzazioni aventi tra gli scopi quello “di incitare all’odio o alla discriminazione razziale. L’ipotesi di reato di cui all’art. 3 comma 1 legge 654/1975 è stata però significativamente modificata, dapprima dall’art. 1 del d.l. 122/1993 (convertito nella legge 205/1993 la c.d. Legge Mancino), poi dall’art. 13 della legge 24 febbraio 2006, n. 85. Difatti, con la c.d. legge Mancino, il legislatore ha inteso ampliare ed articolare maggiormente l’intervento repressivo rispetto alla precedente “legge Reale” precisando, nella clausola iniziale dell’articolo 3, comma I, che scopo delle successive previsioni incriminatrici deve considerarsi anche quello di dare esecuzione all’art. 4 della Convenzione di New York 26 mentre con la precedente formulazione della norma si affermava che le disposizioni penali in essa contenute erano preordinate tout court “ai fini” di dare attuazione all’articolo 4 del Trattato.27 Più esattamente il testo dell’articolo 3, comma I, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, novellato dalla legge Mancino, puniva: “a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.28 Se ne ricavava che, in un quadro di complessiva attenuazione delle conseguenze sanzionatorie (gli estremi edittali risultano infatti generalmente modificati verso il basso rispetto alla previsione del 1975), venivano distinte le condotte di mera “diffusione delle idee” e di mero “incitamento alla discriminazione”, punite con pena meno elevata, da quelle di incitamento alla violenza, o violenza, o provocazione alla violenza alla provocazione, punite più gravemente (ma sempre con pene meno elevate rispetto alla previsione originaria: infatti il minimo edittale scende comunque da un anno a sei mesi). Ultimo intervento in merito alla riforma dei reati di opinione è la legge 24 febbraio 2006, n. 85, all’articolo 13, che ha ulteriormente modificato l’art. 3 comma 1 della legge 654/1975. In particolare alla lettera a), oltre a un’ulteriore diminuzione della pena (che ora è alternativa: reclusione fino a un anno e sei mesi, oppure multa fino ad euro 6000), vengono modificati i termini definitori della condotta penalmente rilevante: è punito non più chi “diffonde in qualsiasi modo”, ma chi “propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”; non più chi “incita”, ma chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

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