Il concetto di infermità è indubbiamente uno degli argomenti più dibattuti, non solo nel contesto delle discipline penalistiche, ma anche in ambito scientifico e medico. Da un lato, l’attribuzione di significato al termine “infermità” costituisce un elemento fondamentale per valutare la presenza della capacità di intendere e volere; dall’altro, è necessario esaminare come tale condizione abbia inciso sul soggetto al momento del reato. Emergono così due livelli di valutazione: quello che definisce propriamente il concetto, variabile in base al modello di riferimento o paradigma adottato, e quello che valuta l’entità del deficit, richiedendo criteri tangibili. Risulta pertanto opportuno esaminare le diverse teorie sviluppate in relazione alla malattia mentale. Il paradigma più antico nell’ambito delle malattie mentali è quello medico o biologico-organicista, che sostiene che le infermità mentali sono da considerarsi autentiche malattie del cervello o del sistema nervoso, caratterizzate quindi da una base organica o biologica. La Cassazione ha spesso fatto riferimento a questo paradigma, affermando che “ai fini della sussistenza del vizio totale o parziale di mente, l’infermità va intesa come uno stato patologico che compromette l’equilibrio funzionale dell’organismo umano nel suo complesso”. Di conseguenza, su queste premesse, si tendeva a escludere dalle malattie mentali le neuropsicosi e le psiconevrosi in quanto prive di basi anatomiche e indipendenti da cause biologiche . Va sottolineato che una specifica interpretazione del suddetto modello medico ha dato origine al cosiddetto modello nosografico, su cui la giurisprudenza di legittimità si è espressa più volte con posizioni divergenti. Mentre in alcuni casi la Suprema Corte ha manifestato un favore nei confronti dell’adozione dei criteri forniti dalla nosografia psichiatrica, in pronunce successive ha dichiarato la loro superfluità.
Per quanto riguarda il secondo modello, noto come modello psicologico, è possibile individuare le sue radici nelle opere e nella filosofia di Freud. Il modello psicologico, oltre ad essere oggetto di riflessione, è stato anche adottato come criterio per valutare gli stati morbosi che potrebbero influire sulla capacità di intendere e volere. In particolare, è stato sostenuto che “la classificazione tipologica delle malattie mentali risponde a esigenze scolastiche, non giuridiche. Il giudice, pertanto, nel determinare concretamente la presenza di infermità che compromettano notevolmente la capacità di intendere e volere, non è affatto vincolato agli schemi tipici della letteratura psichiatrica” .
Nel corso degli anni, il modello psicologico ha dimostrato di essere insufficiente e inadeguato nel spiegare alcune patologie, portando all’affermarsi del paradigma sociologico. Se consideriamo che il comportamento umano è il risultato delle relazioni interpersonali formatesi nell’ambiente sociale circostante, il termine “malattia mentale” diviene essenzialmente una metafora, trovando un significato eziologico solo nell’intreccio dei legami familiari e sociali dell’individuo. Si abbandona, pertanto, l’idea individualistica di infermità con una connotazione organica o psicologica, introducendo invece il concetto di “malattia sociale”. Nonostante le sfide interpretative e applicative di tale concetto, non ne troviamo riscontri nella giurisprudenza. Tuttavia, è importante notare che il codice Rocco ha incorporato il modello medico nosografico di malattia mentale, come evidenziato nei documenti preparatori in cui il vizio di mente è stato definito come una “conseguenza di infermità fisica o psichica clinicamente accertata”. In effetti, l’impatto di una disciplina simile è stato quello di suscitare incertezze sia nell’interpretazione che nell’applicazione, questioni sulle quali la giurisprudenza è intervenuta più volte cercando di colmare le lacune.
In particolare, si è sollevato il problema della qualificazione della nozione di malattia mentale, se da considerare come una specie all’interno della categoria generale di infermità o se funga da sinonimo di quest’ultima. In ogni caso, l’interpretazione del concetto di infermità è rimasta sempre al centro delle controversie nella disciplina in questione. È stato solo nel 2005 che le Sezioni Unite, con la sentenza Raso, hanno segnato una svolta favorevole a un’interpretazione più ampia del concetto, affrontando la questione dell’infermità, in particolare della nozione di malattia mentale. Nel contesto specifico del procedimento per omicidio a carico dell’imputato, si sono svolti vari accertamenti peritali al fine di valutare la sua capacità di intendere e volere, con esiti contrastanti. Nella perizia richiesta dal pubblico ministero, è stato identificato “un disturbo della personalità di tipo paranoideo in un soggetto affetto da una patologia di tipo organico, consistente in una malformazione artero-venosa cerebrale”. In base a ciò, si è ritenuto che il soggetto fosse pienamente capace di intendere, ma con una notevole diminuzione della capacità di volere. Successivamente, in una seconda perizia sempre ordinata dal pubblico ministero, inizialmente è stata indicata la “totale incapacità di intendere e volere al momento del fatto, in quanto affetto da crisi psicotica paranoidea”. Tuttavia, successivamente si è concluso che nel periziato persisteva una “parziale capacità complessiva”, derivante da una piena capacità di intendere e da una incapacità di volere limitatamente al momento della commissione del fatto. Si trattava, infatti, di un individuo non psicotico, ma con una personalità borderline di tipo paranoideo.
Il giudice, pertanto, accogliendo quest’ultima opinione, riconosceva nell’imputato un vizio parziale di mente ai sensi dell’articolo 89 del Codice penale. Al contrario, la Corte di Assise di Appello di Roma escludeva la circostanza attenuante, sostenendo che “le anomalie comportamentali dell’imputato non hanno origine in un’alterazione patologica clinicamente accertabile, corrispondente al quadro clinico di una specifica malattia, né in un’infermità o malattia mentale o in un’alterazione anatomico-funzionale della sfera psichica. Invece, tali comportamenti derivano da anomalie del carattere, da una personalità psicopatica o psicotica, o da disturbi della personalità che non rientrano nella definizione di infermità di mente contemplata dall’articolo 89 del Codice penale.” Al termine di questo percorso giurisprudenziale, le Sezioni Unite sottolineavano come, alla luce della nuova prospettiva integrata sulla malattia mentale, fosse necessario considerare il nuovo linguaggio medico-scientifico. Abbracciando quindi un’interpretazione estensiva del concetto di malattia mentale, le Sezioni Unite affermavano che “ai disturbi della personalità può essere attribuita una attitudine, scientificamente condivisa, a costituire una causa idonea ad escludere o notevolmente limitare, in modo autonomo e specifico, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente”. Secondo il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP), il disturbo individuato avrebbe provocato un vizio di mente solo parziale, evidenziato dal fatto che l’imputato, mantenendo in parte la capacità di intendere e di volere, aveva apportato delle “correzioni” alla scena del crimine, cercando di eliminare le tracce dal luogo del delitto e dai suoi indumenti. Dalla sentenza emergeva anche il meccanismo psichico alla base del comportamento dell’uomo, correlato al movente: “un movente emotivo-psichico derivante dall’effetto di oppressione subito dall’imputato tra le figure della famiglia d’origine e la nuova figura femminile”. Si trattava, infatti, di un individuo dipendente da una figura materna quasi soffocante e offuscato dalla paura di perdere libertà e indipendenza a causa di una compagna percepita come ormai opprimente. Per questi motivi, il Tribunale ha considerato la straordinaria crudeltà perpetrata durante l’omicidio come strettamente collegata al movente psichico. La necessità di una riforma derivava dalle lacune del quadro normativo, ormai non adeguato ai progressi della psichiatria, che promuove una visione eziologica multifattoriale. Data la complessità delle questioni giurisprudenziali, si auspicava in particolare un modello di definizione dell’infermità con clausole aperte, in grado di considerare in modo significativo anche i disturbi della personalità. La Commissione aveva avanzato la proposta di regolamentare il vizio totale di mente nei seguenti termini: “Non è imputabile chi ha commesso il reato a causa di un grave disturbo psichico o della personalità, o di un’altra infermità, quando tale disturbo è così intenso da escludere, al momento dell’atto, la capacità di intendere o di volere”. Questa formulazione avrebbe introdotto il modello di valutazione bifasica già indicato dalla sentenza Raso, caratterizzato da una prima fase di accertamento del disturbo mentale e dell’infermità al momento del reato, seguita dalla verifica del nesso causale tra il disturbo e l’alterazione della capacità di intendere e di volere. Per quanto riguarda il vizio parziale di mente, la Commissione avanzava la seguente proposta di disciplina: “Chi ha commesso il reato a causa di un grave disturbo psichico o della personalità, o di un’altra infermità, quando tale disturbo è così intenso da ridurre notevolmente la capacità di intendere o di volere al momento dell’atto, senza escluderla, risponde del reato commesso; tuttavia, la pena è ridotta.”
Guttae Legis
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