L’articolo 609-bis del Codice penale italiano prevede che: “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.” Questa disposizione è stata denominata la “fattispecie regina” e considerata come la “bandiera, l’architrave e il perno della svolta culturale introdotta dalla nuova legge”, caratterizzata da una vera e propria “rivoluzione copernicana” nel campo del diritto. In primo luogo, si tratta di un reato comune, con la qualifica di soggetto attivo attribuibile a chiunque. Inoltre, come evidenziato dalla dottrina, “in conformità con le acquisizioni più consolidate della criminologia, l’autore di violenza sessuale è generalmente un individuo normale, non affetto da disturbi psichici qualificabili in termini patologici”.
La motivazione alla base dello stupro di solito si attribuisce al potere o alla rabbia e raramente a patologie o deviazioni sessuali. In altre parole, chi commette violenze sessuali è spesso spinto dalla percezione culturale del sesso come strumento di controllo e dominio sugli individui più vulnerabili. Anche se queste situazioni rappresentano generalmente ciò che di solito accade, gran parte dell’analisi si concentrerà sulla comprensione approfondita degli aspetti criminologici e psicopatologici dei cosiddetti “sex offender”, cioè coloro che commettono reati sessuali. In ogni situazione, il fulcro del comportamento criminale diventa l’atto sessuale, un concetto che unifica le espressioni pre-riforma di “congiunzione carnale” e “atti di libidine violenti”. Innanzitutto, la riforma aveva l’obiettivo di affrontare i problemi legati alla qualificazione giuridica di comportamenti che spesso portavano a una sottomissione della vittima a domande mortificanti e invasività nella sfera intima e nella privacy, al fine di accertare il reato commesso. La definizione di atti sessuali presentava un deficit di chiarezza; pertanto, è stata portata all’attenzione della Consulta attraverso una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Crema con ordinanza del 21 ottobre 1998, in relazione all’articolo 25, comma 2, della Costituzione. La Consulta, inizialmente, ha richiamato quanto affermato dal giudice di primo grado, sottolineando che la norma in questione presenta una carenza di chiarezza. In particolare, ha notato che unifica sotto una singola disposizione fatti che precedentemente costituivano reati distinti di violenza carnale e atti di libidine violenti. Unificando le condotte incriminate mediante l’uso della locuzione “atti sessuali” senza ulteriori descrizioni o definizioni, la norma manca di determinatezza. Non esiste, infatti, una nozione comunemente e univocamente accettata di atto sessuale nel linguaggio comune e nella letteratura scientifica. Questa mancanza di chiarezza è evidenziata dal fatto che lo stesso comportamento, come ad esempio un bacio sulla guancia e sul collo o un tentativo di bacio sulla bocca, è stato considerato penalmente non sanzionabile in un caso e ricondotto al precedente reato di atti di libidine violenti in un altro. Di conseguenza, a causa della eccessiva genericità e indeterminatezza della locuzione “atti sessuali”, l’individuazione dell’atto sessuale penalmente rilevante in ogni specifico caso verrebbe interamente affidata alla discrezionalità interpretativa del giudice, con il rischio di creare disparità di trattamento evidenti e inaccettabili per la coscienza sociale, soprattutto considerando che l’articolo 609-bis del Codice penale prevede sanzioni di severo rigore. In base a un orientamento giurisprudenziale iniziale, influenzato dal punto di vista soggettivo e supportato da una parte della dottrina, il concetto di “atti sessuali” è considerato come “la somma dei concetti precedentemente definiti come congiunzione carnale e atti di libidine”. Secondo questa prospettiva, la condotta vietata dall’articolo 609-bis del Codice Penale include non solo ogni forma di congiunzione carnale, ma anche qualsiasi atto che, tramite un contatto corporeo tra il soggetto attivo e il soggetto passivo, anche se fugace ed estemporaneo, o coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato e normalmente idoneo a mettere a rischio la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale. La Corte di cassazione giunge a una netta “oggettivazione dell’atto sessuale” nel 1998, attraverso la sentenza relativa al caso Di Francia, dichiarando che “la connotazione sessuale dell’atto conferisce alla nozione un significato prevalentemente oggettivo piuttosto che soggettivo, come avveniva per gli atti di libidine.” Questo comporta una limitazione dell’ambito di rilevanza penale di alcuni aspetti marginali degli “atti di libidine”, poiché il riferimento al sesso implica un contatto corporeo che non si limita alle zone genitali, ma include anche tutte le aree considerate dalla scienza, non solo medica, ma anche psicologica e antropologico-sociologica, come erogene e in grado di esprimere l’istinto sessuale, escludendo però le espressioni di libido caratterizzate da una sessualità particolare. Inoltre, poiché l’aggettivo “sessuale” si riferisce al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non restringe la sua portata agli aspetti genitali del rapporto interpersonale, nella nozione di “atti sessuali” devono essere inclusi tutti gli atti indirizzati verso zone erogene, capaci di compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e di entrare nella sua sfera sessuale con modalità caratterizzate dalla costrizione. La giurisprudenza su questo tema è decisamente di minoranza, tuttavia, per completezza dell’analisi, è opportuno menzionare le pronunce più rilevanti. Un primo riferimento è rappresentato dalla sentenza Lorè del 1999, numero 1431, in cui la Corte di Cassazione ha stabilito che “la violenza sessuale non richiede necessariamente un contatto fisico diretto tra l’aggressore e la vittima ed è configurabile, ad esempio, nel caso di un atto compiuto nell’esercizio della medicina, ogni volta che il medico, oltrepassando i limiti di una corretta pratica professionale, trovi modo di soddisfare i propri istinti libidinosi, anche senza compiere atti sessuali propriamente detti”. Quindi, l’aspetto soggettivo del reato previsto dall’articolo 609-bis del Codice penale “consiste nella consapevolezza e volontà di compiere un atto lesivo della libertà sessuale della persona e invasivo della sua sfera sessuale, senza il suo consenso, e non è rilevante che l’obiettivo dell’agente sia mirato a soddisfare la propria concupiscenza o abbia un altro fine”. È importante notare che la nozione di atto sessuale sarà sempre limitata a contatti che coinvolgono aree del corpo definite come “erogene”. Ritornando ora all’analisi degli ulteriori elementi costitutivi della fattispecie contemplata dall’articolo 609-bis del Codice penale, osserviamo come, in continuità con l’ormai abrogato articolo 519 del Codice penale, siano stati mantenuti i requisiti di violenza fisica e minaccia violazione psichica, prospettazione di un male ingiusto, nella condotta coercitiva. Un esempio emblematico è rappresentato da un caso recente deciso dalla Corte di Cassazione lo scorso ottobre, il quale ha confermato quanto già affermato nel 2004, ossia che “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in materia di violenza sessuale, l’elemento oggettivo comprende sia la violenza fisica in senso stretto, sia l’intimidazione psicologica capace di costringere la vittima a subire atti sessuali, sia – come è rilevante nel caso in esame – anche il compimento di atti di libidine subdoli e improvvisi, effettuati senza assicurarsi del consenso della persona destinataria o comunque impedendone la manifestazione di dissenso”. Come individuare, quindi, i casi di minore gravità?
Una parte della dottrina aveva inizialmente proposto di adottare i criteri di differenziazione tra atti di libidine e violenza carnale, ma questa prospettiva è stata rapidamente esclusa. La riforma legislativa, al contrario, ha unificato le due tipologie di reato nell’unico concetto di violenza sessuale, come già specificato. La giurisprudenza successivamente ha precisato che è necessario valutare la concreta lesività del fatto, il grado di coartazione subito dalla vittima, le sue condizioni psico-fisiche e l’entità del danno subito, tenendo conto della situazione contingente.
Guttae Legis
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