Riflessioni sul concetto di fine vita nel sistema penale

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Il diritto penale e, in generale, l’ordinamento giuridico devono tenere conto dell’interpretazione della morte fornita dalla legge, al fine di stabilire un limite oggettivo al dovere di tutelare la vita. Questo limite ha un valore obiettivo, ma non è immutabile, poiché è destinato a evolversi in base ai progressi scientifici, che potrebbero portare a diverse concezioni della morte. Alcune di queste concezioni, già introdotte a livello scientifico anche se non ancora normativamente recepite, includono situazioni come la cosiddetta “morte corticale” e lo “stato vegetativo permanente”, caratterizzati dalla mancanza di attività cerebrale e dalla perdita della vita relazionale. Tali situazioni richiedono un trattamento giuridico adeguato. Il Codice penale del 1930, in risposta alle pressioni della dottrina del tempo, introdusse un’ipotesi autonoma di reato per l’uccisione del consenziente. I codici penali precedenti all’unità d’Italia e il codice Zanardelli del 1889 non includeva questa figura criminosa, che invece era già presente in molte legislazioni europee. In assenza di una disposizione specifica, la condotta di uccisione su richiesta veniva interpretata dagli studiosi e inserita nel sistema penale esistente, senza una chiara indicazione da parte del legislatore su come l’ordinamento avrebbe dovuto trattare tale comportamento.

Tra gli studiosi di diritto penale, la possibilità di ridurre la pena per l’omicidio del consenziente o addirittura di escluderla non era una novità neanche allora. Il dibattito su questo argomento, sempre vivo, tornò di grande attualità a causa di un famoso saggio pubblicato da Enrico Ferri nel 1895, intitolato “L’omicidio-suicidio”. Ferri, esponente della scuola positiva, riteneva che così come l’uomo ha il diritto di vivere, dovrebbe avere anche il diritto di decidere di morire. In questo modo, nel panorama dottrinario italiano si cominciò a delineare un principio di libera disponibilità della vita da parte di chi era sempre stato considerato un “soggetto” della vita stessa. Ferri, inoltre, per evitare reazioni sdegnate da parte degli studiosi del suo tempo e per non urtare la coscienza morale, invitava a considerare il fenomeno esclusivamente dal punto di vista del diritto, che deve essere distinto dalla morale. Le riflessioni di Ferri derivano dall’intento di influenzare i lavori sul codice Zanardelli, che erano in corso in quel periodo, riguardo all’opportunità di escludere dal futuro codice il reato di suicidio.

Ferri dedica anche una sezione del suo scritto all’omicidio del consenziente: in linea con il concetto di disponibilità della vita, sostiene che il consenso dovrebbe sempre e comunque costituire una circostanza scriminante. Tuttavia, considerando che il diritto penale non si basa esclusivamente sulla logica, ma tiene conto del ruolo del delinquente, il consenso potrebbe essere una scriminante solo se l’omicidio è commesso per motivi non contrari alla legge. Le conclusioni dell’autore possono essere considerate poco convincenti da due prospettive diverse. In primo luogo, nonostante si costruisca un concetto di “disponibilità” della vita da parte dell’individuo, il ragionamento che porta all’operatività della scriminante si concentra unicamente sui motivi dell’agente, trascurando i diritti del morente. In secondo luogo, dal punto di vista della tradizione penalistica, il fatto che l’eventuale disvalore dell’azione sia centrato esclusivamente sui motivi dell’agire non sembra rispondere appieno all’approccio tradizionale del diritto penale. Riassumendo sommariamente le posizioni più autorevoli nella discussione dottrinaria sull’omicidio del consenziente nel contesto del codice Zanardelli, si possono individuare tre tesi distinte: alcuni autori, seppur in minoranza, proponevano la non punibilità per ragioni oggettive dell’omicidio del consenziente. Le basi di questa teoria possono essere ricondotte al superamento dell’idea di indisponibilità della vita, oppure alla considerazione del consenso come scriminante in presenza di una malattia inguaribile del soggetto passivo, certificata da un parere medico. Altri autori sostenevano l’impunibilità per ragioni soggettive, cioè basandosi sulla causa dell’azione. Questa è una prospettiva positivista, secondo la quale “la responsabilità giuridica per un atto che viola i diritti altrui è determinata dalla qualità dei motivi che hanno determinato l’azione; e la pena aumenterà, diminuirà o scomparirà completamente a seconda che l’autore del fatto sia mosso da motivi sociali o antisociali.” Quindi, secondo questa prospettiva, non è sufficiente il consenso della vittima, ma è necessario che l’autore abbia un motivo nobile per giustificare l’azione. La terza posizione, sostenuta dagli autori della scuola classica, tra cui Carrara, tendeva invece a ricondurre l’omicidio del consenziente all’omicidio comune. Secondo questa visione, l’uccisore del consenziente è considerato un autore lucido e volontario dell’atto omicida, pertanto deve essere trattato come un omicida comune.

​Guttae Legis

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